aprile 6, 2010

L’ennesima vittoria di Berlusconi e della sua destra populista e intrallazzona ha radici molto profonde nella società italiana degli ultimi venti anni.
Oltre all’impoverimento culturale della società e delle istituzioni che è sotto gli occhi di tutti, oltre al monopolio dei media (che di quell’impoverimento sono i maggiori artefici), oltre alle ragioni di carattere socio-antropologico che fanno dell’Italia un paese particolare, vi sono ragioni di carattere economico che, tramite un lento lavorìo che appresso esamineremo, hanno cambiato la struttura sociale del paese.
In Italia vi sono quattro milioni di imprenditori, il 97% dei quali imprenditori individuali o di imprese familiari. Queste imprese sono cronicamente sottocapitalizzate e basate per lo più sulle capacità dell’imprenditore e (quando egli riesce a trasmetterle) su quelle dei familiari o dei dipendenti migliori. Le macchine industriali vengono perlopiù prese in affitto o supplite con maggiore intensità di lavoro, anche a causa di un sistema bancario inadeguato alle esigenze di una classe imprenditoriale giovane, con aggravio dei costi di produzione (o peggioramento delle condizioni di lavoro). L’impresa, spesso, non sopravvive all’imprenditore, perchè manca di una struttura organizzativa diffusa. Se non è precarietà lavorare dodici ore al giorno e trovarsi il giorno dopo con un pugno di mosche… ma questo è un dato culturale dell’Italia del dopoguerra.
Una politica di incentivazione alla concentrazione e a consorziarsi potrebbe riuscire a limitare questa anomalia, ad esempio con garanzie pubbliche su parte degli investimenti (costerebbe zero) e credito d’imposta per un paio d’anni a chi si consorzia o si fonde. Senza considerare i risparmi che deriverebbero dalla semplificazione della gestione dei controlli e degli accertamenti.

La riforma del mercato del lavoro di inizio decennio ha aggiunto a questa già cospicua somma di imprenditori una classe di “partite IVA” anomale, sostanzialmente lavoratori dipendenti senza tutele e con meno tasse. Ma anche senza pensione e con sogni da veri imprenditori. La crisi ha spazzato via per due terzi questi “liberi proletari”. E qui entrano in gioco i media, che riescono a convincere costoro che la colpa non è della crisi internazionale, causata come noto e assodato da anni di moderazione salariale, crisi dei consumi e deregulation a tutti i livelli, ma da cinquant’anni di oppressione fiscale che costringe le aziende a non assumemere e non investire.

Inseriamo nel conteggio elettorale il fatto che la crisi ha di fatto frustrato le ambizioni di crescita di queste classi sociali, e che l’unica possibile uscita per molti di costoro dal tunnel potrebbe arrivare dai soldi di commesse pubbliche “ben distribuite”(arte in cui la destra del duemila si è saputa dimostrare spregiudicata quanto i cugini socialisti degli anni ottanta-novanta, vedi Bertolaso S.p.A.). E che a livello locale i voti si comprano molto più facilmente.

Ecco spiegato il controsenso di una radicale che vince nella città dei papi e la vittoria della Polverini, conquistata nelle province laziali.

Nel prossimo tratto intestinale analizzeremo la vittoria nel nord e l’affermazione di Vendola.
Liver

P.S. Vedremo che farà la sindacalista almirantina per quanto riguarda le assunzioni al Consiglio Regionale del Lazio. Un’orda di idonei (e quindi di voti) è pronta a dare battaglia.

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